Triste, per gli uomini liberi, la notizia che gli ebrei ortodossi di Israele (circa il dieci per cento della popolazione) sono riusciti a imporre la chiusura dei negozi e la sospensione delle partite di calcio per shabbat (sabato). Ci sono due condizioni, entrambe ovvie, che possono e devono regolare il rapporto tra le credenze religiose e la vita civile, La prima condizione è che le comunità religiose devono essere pienamente libere di manifestarsi, organizzarsi, celebrare i loro culti; e nessuna religione perseguitata o discriminata. La seconda è che le credenze religiose non devono interferire nella vita pubblica, che è di tutto, anche degli atei, e non può essere soggiogata a usanze di parte, men che meno se spacciata per “volontà di Dio”.
C’è un’oggettiva violenza nella pretesa di una minoranza zelante di costringere anche chi non crede, o crede diversamente, ad acconciarsi ai suoi tabù. Israele ha fatto un passo in avanti verso una definizione più nettamente confessionale del proprio assetto e della propria immagine. Perché gli israeliani di buona voontà, non importa se “di destra” o “di sinistra”, non rimettono al loro posto gli invadenti, bellicosi, intolleranti ortodossi che tanti problemi creano fuori e dentro il loro Paese, non è semplice da capire.
Quello che si capisce bene, invece, è che il prezzo di ogni cedimento ai fanatici lo paga l’intera società.
La Repubblica, 11 settembre 2015